Spaventato, arrogante, incollerito e sdegnato con l’uomo, con Dio, con l’Universo, (ma vagamente spe­ranzoso perché forse quella strana gente che proclama­va di aver trovato il modo di smettere di bere avrebbe potuto aiutarmi) — era come mi sentivo circa sette an­ni fa, alla mia prima riunione A.A.

Ero spaventato perché i miei anni di bevute e di sogni delusi mi avevano condotto alla terrificante vita di mendicante, e per completare l’opera ero pieno di piaghe causate dall’alcool e dal dormire nei portoni.

Ero puzzolente. Era finito tutto in fondo a una fogna, la mia carriera di insegnante e gli altri cento e più me­stieri che avevo tentato. Non c’era rimasto niente per cui vivere, ma avevo troppa paura di morire.

La mia arroganza posava sulla salda convinzione che ero migliore di coloro che mi circondavano. Do­potutto ero uno scrittore di talento, o no? Non avevo scritto per anni un rigo che si potesse leggere ma pen­savo che la mia opera non fosse stata pubblicata solo perché ero frainteso e discriminato. Tutta la mia vita si era svolta in questo modo. Unico, non ero mai stato compreso da nessuno. Nessuno mi si era avvicinato, tanto da sentire la torturata consapevolezza, la soffe­renza e la solitudine dentro al mio animo. Ero un nero ed ero intelligente, e il mondo mi aveva ripetutamente respinto per questo. Odiavo questo mondo castigato­re e me la prendevo con la sua vita e il suo Dio. Il mio furore consumava tutto. Solo perché la mia pena e il mio malessere erano ancor più grandi, fui in grado di star seduto fino alla fine a quella prima riunione con un gruppo di persone pulite, evidentemente felici, per lo più bianchi che si dichiaravano alcolisti.

Mi offrirono del caffè e mi si affollarono intorno. Furono onesti quel tanto che basta per non finge­re di non notare le mani che mi tremavano. Risero e dissero che le cose sarebbero andate meglio. Li ascol­tai con difficoltà. Dissero che l’alcolismo è una malat­tia, una malattia fisica, mentale e spirituale, una malattia curabile dalla quale la gente si può recuperare.

Bevvi tutto ciò avidamente, con la delirante grati­tudine dell’uomo morente di sete.

C’era ancora una punta di amaro in queste acque, un dubbio a scoppio ritardato: avrebbe funzionato per me? Dopotutto, a differenza di quella gente, la socie­tà mi aveva condannato alla vita di un vagabondo ne­ro e sconfitto. La terapia seguita nei reparti psichiatrici di molti ospedali aveva confermato i miei primi sospet­ti, che cioè il mio bere eccessivo era causato dall’inca­pacità di adattamento all’ostile mondo nel quale ero costretto a vivere, la religione mi aveva represso fin dall’infanzia, offrendomi altre paure e restrizioni e di qui altri motivi per bere. All’improvviso la parola “Dio” riecheggiò tra le mura della sala di riunione, che era in una chiesa, e io mi domandai seriamente se quei pii, bianchi borghesi alcolisti avrebbero potuto in qualche modo capire i gravi problemi che costringevano a bere quel nero ubriacone di vino tanto intelligente.

Diverse riunioni dopo arrivai a certi principi fon­damentali che non solo mi salvarono la vita, ma che l’avrebbero gradualmente cambiata. Imparai che tutti noi alcolisti, indipendentemente da chi siamo, o da dove veniamo, beviamo come beviamo per un solo fonda­mentale motivo, il nostro alcolismo. Abbiamo una ma­lattia che non ci permette di smettere, dal momento in cui prendiamo il primo bicchiere. La nostra malattia è profonda e dinamica, tale da invadere con tenacia i tessuti mentali e spirituali del nostro essere. Dobbia­mo costantemente tenerla ferma per mezzo del pro­gramma di A.A. se vogliamo star bene e restare sobri.

Le gratificazioni della sobrietà sono abbondanti e progressive, tanto quanto il male che esse contrastano. Forse la più notevole di queste gratificazioni è sta­ta la liberazione dalla spaventosa prigione del mio sentirmi unico.