Me lo ricordo come fosse oggi. Ed è forse l ‘unica cosa di quel periodo di cui ho mantenuto un’immagine nitida. In tv davano uno sceneggiato, «Silvia è sola» con Marina Malfatti. Lo guardavo seduta sul divano e piangevo. Vedevo la storia di quella donna e vedevo la mia: le stesse paure, le stesse sofferenze, lo stesso bicchiere in mano. Avevo cominciato a bere perché mi faceva stare bene con gli altri. Ma ero arrivata al punto in cui l’alcol si stava riprendendo tutto. E con gli interessi.
Così quella sera ho deciso e il giorno dopo, finita la cena, ho detto a mio marito che uscivo per andare a una riunione di Alcolisti Anonimi. Conoscevo il posto, ma non avevo mai avuto il coraggio di fermarmi. Quando ho bussato è successo quello che non avrei voluto che accadesse. In cima alle scale c’era una persona che mi conosceva. Mi sono sentita sprofondare. Sarei voluta scappare. Poi, all ‘improvviso, è andava via la luce elettrica e quanto è tornata mi sono ritrovata in una stanza insieme a tante altre persone premurose e rassicuranti. Mi sono fermata e ho ascoltato le loro storie così simili alla mia. «Quando hai bevuto l’ultima volta?» mi ha chiesto uno. «Questo pomeriggio, alle cinque e mezza». «Allora torna domani, a quell ‘ora facciamo riunione e festeggeremo insieme le tue prime ventiquattr’ore di sobrietà». Così feci. Avevo 28 anni. Mi ero sempre sentita una persona inadeguata. Allo stesso tempo però non riuscivo ad ammettere di poter sbagliare. Anche oggi sul lavoro fatico ad accettare il giudizio degli altri e soprattutto a riconoscere di poter avere bisogno. Con l’alcol è stato lo stesso. Dopo sedici anni di sobrietà pensavo ormai di essere guarita. Di poter fare a meno del gruppo e di poter bere senza perdere il controllo. E invece non è stato così. Quell ‘atto di superbia l ‘ho pagato caro e nel giro di un anno sono tornata ai livelli di prima.
Nonostante tutto il tempo passato in AA non ero ancora pronta. Avevo sempre pensato che il potere superiore, un giorno o l’altro, si sarebbe fatto vivo. Me lo immaginavo con la barba bianca che mi veniva incontro dicendomi «Tranquilla, ci penso io». Ma quando mi viene chiesto di accettare che dio elimini tutti i miei difetti, non significa che devo rinunciare a prendere in mano la mia vita e delegarla. Al contrario, vuol dire finalmente agire senza rispondere in automatico, ma con la piena consapevolezza di ciò che sono e di dove voglio arrivare. Conosco le mie debolezze e i miei limiti, ma ho un obiettivo.
È stata dura rientrare in AA, ammettere il mio fallimento. Mi ricordo che poco dopo aver ripreso a frequentare il gruppo sono andata a Rimini per il nostro incontro nazionale. La tregiorni finiva con la «conta». Ti danno in mano una lampadina che accendi quando vengono chiamati quelli che come te hanno raggiunto un determinato tempo di sobrietà: chi trent’anni, ma anche chi ha smesso solo da un giorno. Quando è toccato a me, quattro mesi di sobrietà, non ce l’ho fatta. Mi sono vergognata e la mia lampadina è rimasta spenta. «Come? Solo quattro mesi? Avrei potuto avere più di vent’anni di sobrietà se solo avessi voluto…». Ancora una volta non avevo messo da parte il mio orgoglio. Non avevo chiesto veramente a dio di liberarmi dei miei difetti.