Sono arrivato in Alcolisti Anonimi perché stavo male. Ma più del bere era la solitudine a distruggermi. Una solitudine subita, perché quando bevi gli amici spariscono e le persone con cui vivi si stancano di dirti sempre le stesse cose. Se ne vanno e tu resti solo. Solo come un cane.
Non pensavo che l’alcolismo fosse una malattia ed ero convinto di poter smettere di bere in qualsiasi momento. Bastava che lo volessi. D’altra parte lo avevo già fatto senza l’aiuto di nessuno. Avevo passato sei anni lontano dall ‘alcol ma, se oggi ci ripenso, mi rendo conto che sono stati sei anni di astinenza, non di sobrietà. Sei anni passati aspettando il momento in cui avrei ripreso il bicchiere in mano.
Ho cominciato ad andare al gruppo pur continuando a bere. Io negavo, ma tutti se ne accorgevano anche se nessuno mi ha mai colpevolizzato. Mi vergognavo molto, perché mi rendevo conto di tradire tutte quelle persone che non mi chiedevano nulla in cambio dell ‘amicizia che cercavo. È successo allora che una mattina mi sono guardato allo specchio e mi sono detto: «che vuoi fare?». In quel momento è scattata la molla: ho pensato al gruppo, alle testimonianze, a come sarebbe potuta cambiare la mia vita. E ho messo il tappo alla bottiglia.
Quel giorno è iniziato il mio cammino in AA. Mi sono reso conto che avevo trovato qualcosa di positivo, che potevo uscire dalla mia solitudine e da quella schiavitù. Finalmente ho riconosciuto di essere un alcolista, di essere impotente di fronte al richiamo dell ‘alcol. E soprattutto che da solo, senza avere l’umiltà di chiedere aiuto, non ce l’avrei mai fatta a uscirne fuori. Riconoscere e accettare questa mia impotenza sono stati il primo vero esame di coscienza. Mi sono detto: «o accetto il giudizio degli altri per aver buttato via tempo, situazioni, affetti, oppure è inutile pensare di riuscire». Ero io e non gli altri a dover cambiare. Se non cominciavo io per primo nessuno mi avrebbe potuto dare qualcosa. In che modo? Innanzitutto riconoscendo chi sono: accettando il fatto di essere un alcolista.
All ‘inizio il mio rapporto con AA non è stato sereno. Io non solo non mi sentivo un alcolista, ma contestavo anche il fatto che l ‘alcolismo fosse una malattia. E poi mi dava fastidio quel buonismo che si respirava durante le riunioni: le caramelle, le pacche sulle spalle, i sorrisi. «Ma che c’è da festeggiare?» mi chiedevo. «Piuttosto c’è da piangere: in fondo siamo tutti dei disperati e per giunta alcolizzati».
Poi ho capito. La strada della sobrietà passa anche per queste cose. Anche per quelle caramelle, perché nella vita c’è tanto dolore, ma si può trovare anche qualcosa di dolce.