Ero sul camion quando mi è arrivata la telefonata: «Umbe’ ci dobbiamo riprendere la dignità che abbiamo perso». Guidavo in mezzo al traffico della Casilina puntando il bar, il primo di quelli dove ogni sera mi fermavo andando verso casa. Oltretutto quel giorno ero stato particolarmente bravo: avevo bevuto solo una birra a pranzo e pensavo che, prima di cena, un goccetto me lo sarei meritato.
Invece le parole di quell ‘amico di AA che conoscevo da appena un giorno mi hanno attraversato da parte a parte come una coltellata. Ho visto l’insegna luminosa del locale che conoscevo bene e ho tirato dritto. Ho continuato così per tutti quei ventisei chilometri che fino ad allora avevo sempre fatto in quattr’ore, fermandomi sistematicamente ad ogni bar aperto.
È stata dura smettere di bere. Mi sono spaccato la schiena per ritrovare quella dignità che avevo lasciato che mi venisse tolta. E adesso sono sei anni che me la riprendo. Un giorno dopo l ‘ altro.
Gli ultimi anni da alcolista attivo sono stati devastanti. Arrivavo a casa completamente ubriaco e crollavo sul divano. Non esistevano né moglie, né figli. Niente. Lavoravo come un animale per portare lo stipendio a casa, ma per il resto non esistevo. Sono scappato dal quartiere sul Grande raccordo anulare dove abitavo perché mi vergognavo di quello che ero diventato. Pensavo che in provincia sarebbe stato diverso, ma il paese è piccolo e il mondo che avevo lasciato ha continuato a seguirmi.
Non si può pensare di fuggire da se stessi. Qui lo sanno tutti quello che ero. Ma sanno anche quello che sono adesso. Perché il cambiamento si vede. E soprattutto lo sento io.
Riuscire a stare in mezzo alla gente senza dover abbassare gli occhi, uscire la domenica mattina per accompagnare mio figlio a giocare a calcio e sentire dire «ma allora quel ragazzino ce l’ha un papà», tirare fuori dalla soffitta il fagotto e pensare che un giorno potrò riprendere a suonare in un’orchestra, sono gioie che non si possono descrivere. Piccole cose che fanno però una vita, quella vita della quale mi sono riappropriato.
Una volta la mia normalità era bere, adesso è sedermi al tavolino con mia moglie, fare kickboxing insieme a mio figlio, svegliarmi riposato e lavarmi i denti senza poi vomitare, iniziare la giornata con un sorriso. Il filo spinato che mi sono fatto tatuare sul braccio rappresenta proprio questo. È un bracciale aperto che segna l’inizio e la fine di un periodo di merda.
AA mi ha insegnato non solo a vivere senza l’alcol, ma mi ha fatto conoscere soprattutto la gioia di vivere. E questo cerco di comunicarlo a chi è ancora schiavo della sostanza. Non perché sono diventato buono e generoso o senta il dovere di restituire quello che mi è stato dato. No. Lo faccio perché finalmente ho capito, e me lo ripeto tutti i giorni facendo esperienza dei dodici passi, che non vivo solamente per me stesso Vivere significa dare anche solo un’unghia di speranza a chi è nella disperazione, tendere la mano a chi ti chiede aiuto, dimostrare che la vita non è sempre una sconfitta. Questo è vivere.